Supervisione

"...il supervisore sosterrà il supervisionato con l’attenzione empatica, il confronto costruttivo, l’incoraggiamento che lo rassicurano, sul piano personale e professionale, di non esser solo a gestire difficoltà e problemi ma di poter condividere, in un clima di profonda fiducia e di forte coinvolgimento, le percezioni, le emozioni, le azioni e gli atteggiamenti che scaturiscono dalla relazione terapeutica con il paziente..."
(Bisleri et al.,1995)
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Con il concetto di supervisione si suole indicare, tradizionalmente, l’esposizione, da parte di un allievo ad un collega più esperto, di materiale clinico relativo ad una o più sedute, allo scopo d’essere sostenuto e aiutato nella condotta di quel caso e, più in generale, nell’acquisizione di capacità terapeutica ed analitica (Barnà; in Marinelli e Sbardella, 1995).
In una concezione più ampia, la Supervisione rappresenta un processo di conoscenza, di comprensione e di valutazione degli elementi emotivi, cognitivi e relazionali, implicati nel lavoro dello psicologo e dello psicoterapeuta, rappresentando, pertanto, un momento altamente formativo e qualitativamente professionalizzante.
Il bisogno della supervisione, quale parte specifica del percorso formativo clinico, si afferma progressivamente nel mondo psicoterapeutico intorno agli anni ’20: prima di allora, infatti, l’analista personale restava, per gli allievi, il vero punto di riferimento concernente la guida e la valutazione del processo di sviluppo tecnico-professionale (Abadi; in Benvenuto e Nicolaus, 1990).
Nel 1920, l’Istituto di Psicoanalisi di Vienna stabilì che i due ruoli, quello di analista e quello di supervisore, fossero assunti da due persone diverse, giacché si riteneva il primo più strettamente attinente alla terapia e il secondo afferente l’insegnamento. Analisi personale, insegnamento e supervisione compaiono come requisiti formali, indicati dall’International Training Commission già nel 1925.
Inizialmente, tuttavia, il supervisore tendeva a sostituirsi all’allievo nella conduzione del caso dando adito, questo, a numerosi dibattiti. In particolar modo, Balint e Glover manifestarono le loro preoccupazioni, criticando questo genere d’insegnamento quale forma di ‘addestramento superegoico’ che limitava lo sviluppo del potenziale individuale e della creatività con fissazioni permanenti ad un dato insegnante ed alle sue teorie” (Fleming e Benedek, 1983: p. 260).
Nonostante le critiche, i metodi per la supervisione rimasero piuttosto indefiniti e lasciati alla responsabilità individuale o all’improvvisazione dei singoli didatti.
Fu così avvertita l’esigenza di un’osservazione più attenta del complesso fenomeno “supervisione”, esigenza che fu all’origine del sorgere di numerose ricerche e di diversi convegni che, a partire dagli anni ’50, si occuparono sotto molti punti di vista, sia delle funzioni e dei problemi relativi alla supervisione, che della ricerca di criteri tecnico-scientifici cui far riferimento, non ultimo quello della trasformazione di modelli ideali di supervisione e di supervisore.
Attraverso queste ricerche, si è pervenuti alla costruzione di un modello di supervisore capace di favorire e di promuovere un “processo abilitante”, divenendo “consapevole della forza, natura e vicissitudini dell’alleanza d’apprendimento tra se stesso e un dato allievo, adattando i propri metodi d’insegnamento alla effettiva possibilità di apprendere di quell’allievo in quel determinato contesto” (Schlesinger; cit. in Arrigoni Scortecci et al., 1988, p. 451).
Con l’affermarsi di altri orientamenti psicoterapeutici e grazie all’avanzamento tecnologico, oltre a quello psicoanalitico, si sono consolidati nuovi metodi di supervisione in cui è stato spostato il focus, dal paziente al supervisionato e al suo apprendimento, sottolineando così il bisogno di imparare a svolgere la professione in modo personalizzato e nel rispetto dei principi etici e deontologici (De Bernard e Dobrowolski, 1996).
All’interno della relazione tra supervisore e supervisionato, considerata come un “accordo di apprendimento” (Fleming e Benedek, 1983) e di crescita, attraverso la quale vengono acquisite competenze ed insegnate abilità e tecniche della professione psicoterapeutica, tanto durante il percorso formativo quanto in quello dello svolgimento dell’attività professionale, è qui che si esplicano le funzioni fondamentali dell’attività di supervisione.
L’uso di uno strumento completamente nuovo, di nuove tecniche di registrazione, nonché della stessa presenza di un setting non tradizionale hanno spinto noi fondatori di MindTarget a richiedere la collaborazione di un supervisore, esperto ed altamente competente, affinché visionasse il controllo della correttezza nella pratica professionale del team dei terapeuti.
La supervisione, condotta periodicamente ed in gruppo, permetterà di economizzare il tempo dedicato alla formazione sul campo offrendo, pertanto, maggiori possibilità di confronto delle esperienze ed ottimizzando non da ultimo il potenziale di apprendimento.
In una supervisione di gruppo, i possibili benefìci sono dovuti: da una parte, all’acquisizione di molteplici punti di vista su un medesimo caso, dall’altra, alla maggiore quantità di stimoli ed alla possibilità di ascoltare come i colleghi gestiscano il loro lavoro (Parihar, 1993) evitando, cosi, la dipendenza del supervisionato dal supervisore e l’eccessiva gerarchizzazione della relazione (Getzel e Salmon, 1995).
La supervisione è un potente enzima per la crescita professionale, ancor di più se si pensa come essa offra, più o meno esplicitamente, una cospicua dose di sostegno e di incoraggiamento che costituiscono un fortissimo incentivo alla progressione.
Per noi di Mindtarget, la supervisione richiesta e concordata, prima ancora di essere operativi, rappresenta un atto doveroso e responsabile di tutela della professionalità e della competenza.